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Gli orti urbani: nuove esperienze di cittadinanza e relazione

Una riflessione sugli spazi filosofici ed educanti che stanno nascendo nelle medie e grandi realtà urbane del nostro Paese a cura di Flavia, la nostra consulente filosofica, che per Tessere si occupa di facilitazione orientata alla co-progettazione.
Flavia Restuccia I Facilitazione alla co progettazione

Flavia Restuccia I Facilitazione alla co progettazione

Appassionata di Musica, Maieutica, Geofilosofia e Sinestesie, vado alla ricerca di luoghi in cui poter connettere Etica ed Estetica. Approdo a Tessere tre anni fa, trovando in essa un riparo, un porto felice, uno spazio in cui poter sperimentare e mettere alla prova quanto studiato e vissuto in questi primi 34 anni di vita.

Qualche giorno fa, navigando nel Web, mi sono imbattuta in un video dell’Associazione Orti urbani Tre fontane, nata nel 2013 nel quartiere Montagnola di Roma.

Le parole del Vicepresidente Marcello Cornacchia mi hanno immediatamente colpito per la loro portata filosofica: “grazie all’incontro tra le associazioni abbiamo scoperto che la nostra ricchezza è maggiore rispetto alla nostra immaginazione […] Cerchiamo di promuovere il senso dello stare al mondo”.

Indagare la realtà, ricercare il senso, condividere linguaggi e significati, connettere gli esseri umani al proprio habitat, interpretare il mondo attraverso la riflessione critica sulle esperienze vissute, ciò di cui si occupa da sempre la filosofia.

Essa, in sintonia con le recenti scoperte della fisica quantistica, descrive il mondo come un tessuto dagli innumerevoli intrecci, la realtà è già relazione.  L’Io, non è mai pura individualità ma già, inevitabilmente, rapporto con un Tu.

Tutto è inter-soggettività. Nulla esiste se non in relazione a qualcos’altro.

Ogni singola persona è portatrice della dimensione collettiva, comunitaria, frutto di incontri, conflitti, scambi, perché come ci ricorda l’esperienza educativa di Danilo Dolci nella Sicilia del secondo dopoguerra:  «la tua vita è la mia vita, la mia vita non può non essere anche la tua».

Questa dinamica relazionale non vale solamente per gli esseri umani. Cosa potremmo dire, ad esempio, del rapporto della specie umana con il suo habitat? Che gli esseri umani abbiano compromesso la loro sopravvivenza e l’intima relazione con la Natura sembra oggi sempre più evidente.

Ricercare le origini di tale frattura è una questione complessa, sicuramente non risolvibile e trattabile attraverso un breve articolo come questo. Secondo molti pensatori dell’epoca contemporanea tale rottura si è concretizzata a partire dalle grandi rivoluzioni industriali; la Natura è concepita principalmente quale bacino di risorse illimitate da cui poter attingere a proprio piacimento. Altri ritengono che le origini di tale fenomeno siano da ricercare nei sistemi di pensiero di antichi filosofi del periodo classico, i così detti “sistematici” (Platone e Aristotele in primis), che, in un certo qual senso, adombrarono la saggezza dei filosofi presocratici (vissuti prima di Socrate). Nell’opera La nascita della filosofia, Giorgio Colli contrappone proprio l’età dei filosofi (i sistematici) a quella dei sapienti (i presocratici), pensatori intenti ad osservare, interpretare la Natura, senza alcuna pretesa di trasformarla o assoggettarla ai propri scopi. Sapienti perché ancora in dialogo con un principio unitario, non del tutto conoscibile«L’armonia nascosta è più forte di quella manifesta» scrive il sapiente Eraclito di Efeso. E ancora, nei suoi frammenti: «ho indagato me stesso», «i confini dell’anima, camminando, non potrai trovarli, pur percorrendo ogni strada: così profonda è la sua espressione».

Qualcuno potrebbe obiettare che gli esseri umani, per sopravvivere, si servono da sempre della Natura. Per sopravvivereNon per assecondare capitalismo e consumismo.

Esiste ormai una questione preminente e preliminare. Crisi climatica e ambientale sono le dirette conseguenze di innumerevoli scelte irresponsabili e opportunistiche, niente affatto lungimiranti, di un agire sempre più svincolato da una coscienza propriamente etica. La tecnica ci ha donato comodità e rapidità e, al contempo, si è trasformata in un pericoloso boomerang: ci ritroviamo così sull’orlo di un baratro.

Paradossalmente, questo nostro modo di agire, e cioè lo sfruttamento oltre il limite delle risorse della Terra, ha portato alla conseguenza diametralmente opposta a quella sperata: un’esposizione maggiore alla morte. 

Sovrappopolazione, produzione di massa, politiche capitalistiche hanno causato l’alterazione di ecosistemi, siccità, variazioni smisurate nel regime delle piogge, deforestazione, inquinamento idrico e dell’aria, malattie zoonotiche e i così detti megafires. In questo scenario terrificante, una seria riflessione sulla morte e sul suo ruolo di monito e collante per la società potrebbe aiutare a conferire nuovamente senso e dignità all’esistenza. Abbiamo ritenuto fosse scontato, se non un diritto-dovere, scongiurare la morte, ottenere risultati con minimi sforzi, faticare il meno possibile, non dover fare sacrifici, non dover attendere. In realtà ognuno di noi vive e muore ogni giorno. «L’uomo, appena nato, è già abbastanza vecchio per morire»[1].

Inoltre, aver sottomesso la Natura ad una ragione di tipo puramente strumentale e utilitaristica ha alterato i fondamentali rapporti che gli uomini e le donne intrattengono con la realtà spazio-temporale. Ci relazioniamo al Tempo o imponendo i nostri ritmi da “esseri produttivi” inseriti in un meccanismo alienante di prestazione-raggiungimento di obiettivi-valutazione o illudendoci di tornare in armonia con esso servendoci di weekend “fuori porta”, istanti per riemergere dall’apnea. Scattiamo compulsivamente decine di foto da “tenere in memoria” o condividere sui social.. Come se il tempo potesse finalmente rallentare, fino a fermarsi, in quelle fotoCome se quelle stesse foto potessero donarci un po’ di pace.

Che fine fa, in tutto ciò, la dimensione comunitaria?

In una grande città come Roma, gli orti urbani sembrano riproporre un modello esemplare di vita filosofica-politica, grazie al quale sperimentare concretamente esperienze trasformative: nuove forme di cittadinanza, di relazione, nate dal semplice incontrarsi al di fuori delle proprie quattro mura, attivando riflessioni sulla realtà, inventando nuove parole, progettando insieme. Negli orti urbani ci si riconosce prima di tutto come persone pronte a mettersi in gioco, ad instaurare legami viscerali con la Terra, con gli altri, con i paesaggi, con il proprio tempo.

Negli orti urbani, attraverso l’agire filosofico-politico, ci si conquista quotidianamente una vita da vivere con dignità, una vita da consumare, in sintonia con i ritmi della Natura. Gli orti, come sostiene Marcello Cornacchia, non sono solamente uno strumento per fermare la cementificazione ma la maniera per riappropriarsi del proprio territorio e promuovere una «socialità educativa».

Perché i paesaggi educano. 

Ci espongono, innanzitutto, ad una lettura della realtà nella quale emergono storie che raccontano delle difficoltà economiche delle famiglie, del bisogno di contrastare l’isolamento, della necessità di creare uno spazio in cui potersi muovere e promuovere attività in grado di coinvolgere la cittadinanza intera. Tessere che raccontano un mosaico della complessità di oggi. 

Con l’augurio che questi spazi intergenerazionali diventino una nuova Agorà, la piazza principale, nella quale donne e uomini di tutte le età possano tornare a filosofare, a dialogare pubblicamente, e riflettere sulle nuove forme di convivenza civile. Prender parte ai problemi quotidiani attraverso il confronto: cosa mangiare? Quale aria respirare? Come impiegare il proprio tempo? Cosa appassiona? Cosa trovo giusto o ingiusto, bello o brutto?

E che tali spazi non siano concepiti esclusivamente come luoghi “terapeutici”, di riabilitazione e sostegno sociale, altrimenti si tornerebbe ad assoggettare la Natura a scopi, se pur nobiliCurare i sintomi del singolo individuo è condizione necessaria ma non sufficiente per la salvaguardia della specie umana.

Non è più tempo per la sola individualità.

 


[1] Der Ackermann aus Böhmen, a cura di A.Bernt e K. Burdach (Vom Mittelalter zur Reformation. Forschungen zur Geschichte der deutschen Bildung, a cura di K. Burdach, vol. III, parte II), 1917, cap. 20, p.46. 

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